Elogio alla complessità

Osservando la società attuale non si può non dire che stiamo vivendo una vita complessa, una visione della vita che deve tener conto di una serie di variabili. Inoltre è necessaria la conoscenza per raccogliere informazioni di insieme e non notizie parziali o addirittura false per riuscire a farsi un’idea consapevole.

Spesso abbiamo paura della complessità e ricerchiamo la semplicità o la semplificazione, cerchiamo di evitare tutto ciò che ci richiede troppo tempo, concentrazione o impegno.

Viviamo nell’epoca della comunicazione istantanea, dei messaggi brevi, delle statistiche, delle emozioni immediate e rapide e delle vincite facili. La complessità è invece un tema da approfondire che ci può arricchire e dare la possibilità di estendere la nostra conoscenza.

Analizzare la complessità è una sfida che ci consente di affrontare i temi ed esserne critici e ci consente di ragionare sui temi che dovremmo affrontare per comprendere maggiormente.

Ignoranza
E’ uno dei problemi, maggiore è complesso il tema più difficile è comprenderlo ed affrontarlo.
Spesso l’ignoranza ci porta a banalizzare o negare un problema. Spesso non avere i giusti strumenti di comprensione ci porta a negarne l’esistenza.

Strumenti
La complessità richiede strumenti che ci permettano di dominarla e gestirla. Da ingegnere informatico so bene quanto sia importante analizzare bene un problema, evidenziarne gli aspetti critici, identificare gli obiettivi. Questa però è un’analisi solo basate su regole standard e oggettività che spesso ci fa mettere in secondo piano gli aspetti soggettivi e qualitativi che fanno parte comunque di una decisione ragionata e consapevole.
I numeri servono, assolutamente e indubbiamente. Ma sono numeri: non possono sostituire la capacità di lettura dei fenomeni e soprattutto dei segnali deboli, il giudizio qualitativo, le intuizioni e le inclinazioni dei singoli, la necessità di studiare e comprendere i contorni e le sfacettature.

Ridurre tutto al consenso
Un altro modo di evitare la complessità è quello di gestire le cose sulla base del consenso, che nel tempo dei social network e di Internet si manifesta nei “likes” o nei sondaggi istantanei.
Non è tutto lì il mondo per interpretare i cambiamenti, anche perché di solito rispondono solo i pochi che hanno voglia di mettersi in gioco e restano fuori la gran parte del pubblico. Spesso per gestire la complessità è necessario anche prendersi le proprie responsabilità personali.

Singolarità
Abbiamo paura di essere una anomalia, una singolarità, di essere solo noi a pensarla così… e quindi preferiamo conformarci al pensiero comune o quello della maggioranza. Questo perché magari la decisione da prendere è complessa e abbiamo paura di dovercela gestire da soli con magari anche il dissenso del gruppo.

Fallimento
L’errore è una macchina, è un elemento che non ci gratifica perché ci sentiamo sbagliati. Affrontare la complessità è invece più facile per chi non ha paura di sbagliare, oppure si assume l’eventuale rischio dell’errore che comunque è motivo di crescita personale, confronto, discussione, studio.
E’ dall’incontro di personalità diverse che cresce anche una comunità e la società stessa.

Vivere la complessità è quindi importante da gestire e ci possono essere degli elementi interessanti da analizzare.

  • La complessità va studiata e compresa
    Servono competenze, conoscenze e soprattutto una attitudine che spesso sottovalutiamo o ignoriamo.
  • La complessità va affrontata in modo organico e sistemico
    Non bastano cose già pronte ma servono capacità di analisi e di strutturazione dei problemi.
  • Per la complessità serve coraggio, intelligenza, pazienza, trasparenza e onestà intellettuale.

“Il pensiero complesso cerca di collegare ciò che è separato, di riconoscere le diversità nelle unità e di cogliere le interdipendenze.” Edgar Morin

“Nel mondo della complessità, non possiamo aspettarci di gestire i sistemi come macchine prevedibili, dobbiamo imparare a guidare l’imprevedibilità e l’adattamento.” Margaret Wheatley

Lavoriamo tanto, produciamo poco e siamo stressati

La sindrome da dipendenza dal lavoro è definita come un disturbo ossessivo-compulsivo di una persona troppo dedicata al lavoro, incapace di ritagliarsi momenti per sé ponendo, inevitabilmente, in secondo piano la sua vita sociale e familiare. L’aumento del numero di ore lavorate non sempre si traduce, però, in un aumento della produttività, perché la dipendenza da lavoro porta con sé stress, stati ansiosi e malessere (fisico e mentale).

Qualcosa però sta cambiando nel mondo del lavoro, a partire dalle sfere più alte, oggi sempre più aziende creano programmi di welfare aziendale che puntano anche l’attenzione verso un giusto rapporto casa/lavoro garantendo una migliore qualità di vita.
Inoltre, molti software, aiutano questa tendenza… per esempio il nuovo Outlook propone un avviso se scrivi un’email dopo le 18 di sera annunciando che potresti inviarla la mattina successiva, tanto cambia poco, ma eviteresti di disturbare il destinatario oltre l’orario presunto di lavoro.

Con il lavoro (se il lavoro è dignitoso e realizza la sua autonomia personale, punto essenziale della sua dignità), l’essere umano partecipa allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’umanità; dà prova dei propri talenti. Il lavoro è fattore primario dell’attività economica e chiave di tutta la questione sociale e non deve essere inteso soltanto per le sue ricadute oggettive e materiali, bensì per la sua dimensione soggettiva, in quanto attività che permette l’espressione della persona e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo.

Occorre richiamare anche un altro aspetto del lavoro. Esso si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte.

Secondo Roberta Maeran, docente di psicologia del lavoro all’università di Padova, uno degli elementi di maggiore novità nell’odierno panorama del lavoro è proprio la fluidità e la velocità dei mutamenti in atto: «Nel passato, i grandi cambiamenti erano relativamente limitati, o comunque prendevano forma in un arco temporale molto ampio. Oggi, invece, le condizioni cambiano quasi di anno in anno, rendendo difficile un’analisi compiuta dei fenomeni che osserviamo».

Questo cambiamento di attitudine nei confronti del lavoro è spiegato, almeno in parte, dal ricambio generazionale: «Le riflessioni sulla qualità di vita e sull’importanza del lavoro e della carriera sono divenute argomento di dibattito pubblico soprattutto con l’ingresso nel mondo del lavoro dei millennials», cioè i nati tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento, spiega la professoressa.

Tra queste nuove generazioni sono molto più diffusi fenomeni come il quiet quitting o il down-shifting: quest’ultimo, illustra Maeran, «consiste nell’immaginare la propria vita lavorativa non in ascesa, con l’obiettivo di aumentare il proprio prestigio e fare carriera, ma piuttosto in senso discendente, rifuggendo ruoli di responsabilità e preferendo invece posizioni di lavoro subordinato. Questo, infatti, garantisce più tempo per sé e la possibilità di dedicarsi ad attività diverse dal lavoro», ma altrettanto gratificanti.

Il potere delle innovazioni semplici

C’è una crescente consapevolezza del valore di semplici innovazioni. “Non è necessario andare sulla luna per essere innovativi”, certe volte è sufficiente avere delle persone che possono guidare la tecnologia nel cambiamento di un processo per motivare e promuovere un cambiamento.

A volte non è una tecnologia sofisticata a fare la differenza, ma uno sguardo diverso, un modo nuovo di vedere o di fare le cose.
Tra imitazioni della natura, piccoli accorgimenti che hanno salvato milioni di persone e cambiamenti radicali di paradigma, possiamo scoprire che anche idee e innovazioni apparentemente semplici hanno avuto un impatto straordinario sulla nostra vita quotidiana.

La cosa migliore è osservare questi tre principi:

  1. Importanza della semplicità.
    Di che cosa hanno effettivamente bisogno i clienti? Come usano il prodotto? Quali aspetti sono strettamente necessari, quali invece possono essere anche lasciati da parte?
  2. Non reinventare la ruota.
    Si può partire da un prodotto o da un luogo già esistenti, modificarli e generare qualcosa di nuovo con valore aggiunto?
  3. Pensare orizzontalmente.
    È possibile unire ambiti finora separati come la mobilità, il settore alimentare e la sanità e sfruttarli come nuovo ecosistema intersettoriale? E non sarebbe possibile eliminare dalle aziende la mentalità a compartimenti stagni e impiegare la stessa persona per innovazione, sostenibilità e marketing? 

Promuoviamo l’innovazione semplice che può essere un efficace volano di competitività e miglioramento dello stile di vita.

Hai un progetto o un’idea innovativa… parliamone, il confronto può sempre essere costruttivo.

Fabio.

Cucinare o il cibo può influenzare l’umore ?

L’appetito e l’umore sono molto collegati. Alla base di questa influenza c’è un importante neurotrasmettitore, la serotonina, prodotta soprattutto nel tratto gastroenterico, ma anche nel cervello: Nel cervello regola il tono dell’umore, la qualità del sonno, la temperatura corporea, la sessualità e l’appetito.

Non tutti sanno che la serotonina, un neurotrasmettitore noto comunemente come “molecola della felicità”, solo per il 5% è prodotta nel cervello, mentre per la maggior parte viene secreta e immagazzinata nell’intestino. Non deve sorprendere quindi se stati d’ansia, malumore, fino a una vera e propria depressione, sembrano essere associati ad una condizione di disbiosi intestinale.

Il cibo quindi influenza l’umore anche attraverso la modulazione del microbiota intestinale: diversi studi hanno evidenziato che alcune specie di batteri presenti nell’intestino sono stati collegati a tassi più elevati di depressione. Di fatto, circa il 20% di tutto ciò che mangiamo va al cervello.

Comfort food
In caso di tristezza, ansia e malumore, comunemente si è portati a consumare comfort food come dolci, gelati o snack salati. Ma in realtà questi cibi non sarebbero un’ottima combinazione per il nostro corpo, ma sono iperappetitosi e superstuzzicanti e quindi ci fanno sentire temporaneamente meglio ma l’appagamento dura per poco.

Alimentazione sana
Sebbene sia evidente che uno stato di benessere derivi ovviamente da tanti fattori, è indubbio che mangiare alimenti ricchi di prodotti vegetali (verdure, soprattutto quelle a foglia verde e frutta), cereali integrali ​​e grassi omega-3, portano ad una migliore salute mentale.

Frutta e verdura colorata
Più colorato è il piatto, migliore è il cibo per il nostro cervello. Gli studi suggeriscono che i composti di frutta e verdura dai colori vivaci come peperoni rossi, mirtilli, broccoli e melanzane possono influenzare l’infiammazione, la memoria, il sonno e l’umore.

Semi oleosi e frutta a guscio: noci, semi di lino, chia, zucca, sono ricchi di micronutrienti utili al cervello e al buon umore, come zinco, magnesio e acidi grassi polinsaturi.

Pesce: è ricco di acidi grassi omega-3 che hanno proprietà antinfiammatorie. Il pesce è anche una buona fonte di proteine, importanti bacini da cui attingere tirosina e triptofano, precursori della serotonina.

Spezie ed erbe aromatiche
Cucinare con le spezie non solo migliora il sapore del cibo, ma gli studi suggeriscono che alcune spezie riducono l’infiammazione e migliorano persino la memoria. La curcuma, ad esempio, grazie al suo principio attivo può avere benefici sia per l’attenzione che per la cognizione generale e l’aggiunta di un po’ di pepe aumenta la sua biodisponibilità per il nostro cervello e il nostro corpo. Altre spezie che possono favorire la salute del cervello sono la cannella, il rosmarino, la salvia, lo zafferano e lo zenzero.

Gli alimenti fermentati
Includono yogurt, kefir, verdure fermentate, kombucha (una bevanda fermentata a base di tè), kimchi, un contorno tradizionale coreano di cavolo fermentato e ravanello, e tutti agiscono sull’umore, grazie ancora una volta alla modulazione del microbiota intetsinale.

Cioccolato fondente
Meglio evitare il consumo regolare di dolci e zuccheri e optare per il cioccolato fondente in piccole quantità e di buona qualità. Secondo un ampio studio condotto su 14.000 persone, chi mangia regolarmente cioccolato fondente ha un rischio ridotto del 70% di sintomi di depressione. Lo stesso effetto non è stato riscontrato in coloro che avevano mangiato molto cioccolato al latte. Il cioccolato fondente, infatti è ricco di flavonoli, tra cui l’epicatechina, che agisce sull’umore; l’importante è comunque non esagerare.

La sindrome dell’impostore…

Nel percorso di ogni imprenditore arriva sempre un momento in cui ci si sente inadeguati. Interrogarsi sulle proprie competenze, sul proprio ruolo, sulle modalità di effettuare delle scelte, sugli errori organizzativi.


Cos’è la Sindrome dell’Impostore?
La “Sindrome dell’Impostore” fu coniata nel 1978 dalle psicologhe Pauline R. Clance e Suzanne A. Imes.
Si tratta di un fenomeno psicologico in cui le persone dubitano delle proprie capacità e vivono una paura persistente di essere smascherate come “frodi”. Nonostante comunque dei segni del successo, spesso l’imprenditore che si sente inadeguato attribuisce i successi alla fortuna e a fattori esterni, piuttosto che alla sua bravura.

L’idea di non essere sufficientemente preparato, di non saper affrontare i cambiamenti crea delle insicurezza che spesso diventano un vero problema nell’organizzazione del lavoro.

L’esigenza poi del mondo moderno di rispondere ad una serie di stimoli con efficacia, competenza e velocità mette ancora più sotto stress questa figura.

Dall’altro lato un po’ di insicurezza porta però a riconoscere i propri limiti, a fare maggiore attenzione, ad apprendere continuamente e a riconoscere i propri limiti facendosi aiutare da un management efficace in grado di contribuire positivamente all’organizzazione e alla gestione aziendale.

La sindrome dell’impostore può diventare quindi una sfida per la ricerca dell’eccellenza e bisogna smettere di paragonarsi a grandi casi di successo e invece cominciare a valorizzare e riconoscere le proprie strategie vincenti.

Liberarsi completamente della sindrome dell’impostore non è semplice, ma questi consigli potrebbero sicuramente aiutarti. Per prima cosa, può essere utile fare un inventario dei tuoi talenti, delle tue esperienze professionali, delle tue conoscenze e capacità, in modo da convincerti che sei definitivamente qualificato/a per il tuo lavoro o per un determinato ruolo. In questo modo, potresti renderti conto di quanto siano basse le probabilità che qualcuno possa accusarti di essere un imbroglione.

In questo senso, anche mentori e colleghi di lavoro possono aiutarti a far risaltare le tue capacità e qualità: non esitare a chiedere loro un feedback onesto e sincero sul tuo modo di lavorare, sulla comunicazione o sulla realizzazione dei tuoi progetti.

Tamagotchi

Ricordate il Tamagotchi? Il gioco che spopolò in tutto il mondo negli anni Novanta e Duemila: una console in miniatura a forma di piccolo uovo con tre pulsanti, sul cui schermino appariva un animaletto – il virtual pet – che andava costantemente nutrito e intrattenuto, e di cui bisognava pulire le feci virtuali, pena la morte. Da bambino non conoscevo la differenza tra AM e PM, e per questo passai diverse notti insonni a vegliare sulla bestiolina digitale. Fu così che fortunatamente smisi di usarlo per sempre.

Vale la pena ricordare che i creatori del Tamagotchi vinsero nel 1997 il premio Ig Nobel per l’economia «per aver dirottato le ore lavorative di milioni di persone nell’allevamento di animaletti virtuali».
Capaci di generare una dipendenza clamorosa, furono sostanzialmente sostituiti dalla loro evoluzione diretta, ossia altri oggetti con pulsanti e schermo chiamati volgarmente “Smartphone”, simulatori di vita in cui l’animaletto virtuale di cui prendersi cura è… il giocatore stesso.

A guardarlo bene, possiamo dire che il Tamagotchi fu un allenamento di massa a quella simulazione esistenziale che caratterizza oggi le nostre giornate.

Passiamo gran parte del nostro tempo a curare mostri virtuali a cui diamo sostanza attraverso la nostra attenzione: i profili che gestiamo e guardiamo ogni giorno sono l’evoluzione diretta e condivisa di quella simulazione, con la differenza che quelli dentro la cornice siamo noi, a contatto con altri umani-Tamagotchi.

Vale veramente la pena tutto ciò ?

Dimmi la tua su info@fabio.today

Perchè questo blog ?

Ciao a tutti!

Indovinate come mi chiamo ? Sono Fabio.

Questo blog è più un archivio di copia e incolla che un originale blog scritto tutto da me.
Purtroppo ho sempre poco tempo ma vorrei comunque raccogliere in un magazine spunti comuni da varie fonti di informazioni e qualche articolo originale.

Spero nessuno se la prenda per il copyright infatti la fonte per i contenuti non miei è sempre citata.

Per qualunque segnalazione, suggerimento o commento scrivete pure a info@fabio.today 

Le comunità virtuali creano solo l’illusione di intimità

Le comunità virtuali che hanno sostituto quelle naturali, creano solo l’illusione di intimità e una finzione di comunità. Non sono validi sostituti del sedersi insieme ad un tavolo, guardarsi in faccia, avere una conversazione reale. Né sono in grado queste comunità virtuali di dare sostanza all’identità personale, la ragione primaria per cui le si cerca. Rendono semmai più difficile di quanto non sia già accordarsi con se stessi. Le persone camminano qua e la con l’auricolare parlando ad alta voce da soli, come schizofrenici, paranoici, incuranti di ciò che sta loro intorno. L’introspezione è un’attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri, controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro.

ZYGMUNT BAUMAN, Intervista sull’identità (Laterza 2003).

Fonte libriantichionline.com

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Tirame sù: un dolce che è un’emozione.

Ormai è certo il tiramisù, in dialetto trevigiano “Tirame sù”, nasce a Treviso nel 1969 presso il locale storico “Le Beccherie”, dove per la prima volta viene reso pubblico il dolce all’interno di un ristorante.
La sua origine sembra nascere dallo “sbattutin”, colazione a base di tuorlo d’uovo sbattuto con zucchero, che si faceva ai bambini per tirargli su e dargli forza con un pasto ipercalorico!
La proprietaria del ristorante “Le Beccherie”, con l’allora pasticciere del locale Roberto Linguanotto, comincia un periodo di sperimentazione che porta poi nel 1972 a realizzare la ricetta del Tiramisù originale di oggi con abbinando nella crema il mascarpone (rigorosamente fresco e non confezionato).

La ricetta del tiramisù originale
12 tuorli d’uovo non freddo non freddo da frigo
1/2 kg di zucchero
1 kg di mascarpone non freddo da frigo
60 savoiardi
q.b. caffè
q.b. cacao in polvere amaro

La preparazione originale
1. Preparare il caffè e lasciarlo raffreddare in una ciotola
2. Montare a spuma 12 tuorli d’uova con ½ kg di zucchero ed incorporarvi 1 kg di mascarpone ottenendo così una crema morbida. Il mascarpone va incorporato poco per volta, facendolo amalgamare bene.
3. Bagnare 30 savoiardi con caffè facendo attenzione a non inzupparli troppo e disporli in fila al centro di un piatto circolare.
4. Spalmare sui savoiardi metà della crema e poi sovrapporre un altro strato di 30 savoiardi bagnati con il caffè’, spalmare poi la superficie con la rimanente crema di mascarpone.
5. Cospargere il mascarpone con del cacao magro setacciato.
6. Mettere in frigo fino al momento di servire e comunque per almeno 3 ore.

Da ricordare, che la forma del Tiramisù originale alle Beccherie è circolare, veniva servito in “spicchi” e “contrassegnato” da un marchio in cacao riportante l’insegna del locale.

Alcune indiscrezioni:
Si narra nella leggenda che in realtà il Tiramisù sia nato ancora negli anni metà/fine 1800 come rinvigorente per gli uomini e per merito di una “maitresse” di una casa di piacere in centro storico a Treviso, che utilizzava il “tirame sù” come dolce a base di uovo, zucchero e rhum (stile zabaione) per riportare gli uomini ad un nuovo vigore al ritorno a casa per i loro doveri coniugali. Praticamente un viagra dell’800. Un po’ in stile “Signore e Signori” 🙂





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Coronavirus: torneremo alla normalità ?

In questo periodo di crisi, tutti cercando di fare analisi sul post-pandemia che sta ormai coinvolgendo pesantemente l’Italia ma a cascata tutti gli altri Paesi.
Purtroppo indipendentemente dall’esito di questo periodo, dovremmo abituarci a modalità operativi e uno stile di vita ed economico che nuovamente cambierà pesantemente le nostre vite.

Leggendo un articolo apparso sul MIT Technology Review, rivista ufficiale del MIT (rintracciabile qui https://www.technologyreview.com/s/615370/coronavirus-pandemic-social-distancing-18-months/) si capisce subito come la situazione non sarà semplice.

Dopo il periodo di crisi attuale avremo infatti la necessità di mantenere comunque lo stato d’allerta per un periodo prolungato, si stima almeno un anno, a meno che non si riesca in tempi brevi a raggiungere una cura e un vaccino.

Su questo lato tecnologico, stanno nascendo molti progetti per condividere risorse computazionali, prestazioni e conoscenze, in maniera di mettere tutta la capacità di elaborazione possibile a disposizione della ricerca medica per raggiungere presto la sintesi di una proteina in grado di sconfiggere questo virus.

Come cambieranno gli scenari ?

  1. Bisognerà mantenere comunque uno stato di allerta
  2. Determinate attività dovranno riqualificarsi in modalità nuove, magari a distanza per evitare l’assembramento di persone e quindi rischi inutili
  3. Ci sarà una crescita dei consumi on-line e di tutti quei servizi che lavorano “a distanza” come consegne a domicilio
  4. Ci sarà un maggiore utilizzo dei dati sanitari, degli spostamenti con la geolocalizzazione e questi dati saranno utilizzati per certificare lo stato di salute della persona o per garantire che non sia venuta a contatto con persone a rischio
  5. Sicuramente si svilupperanno tecnologie per l’intelligenza artificiale e per creare scenari di rischio così da evitare nuove pandemie.
  6. Dovremmo riqualificare l’economia, creando strutture di imprese più solide, con un profilo economico/finanziario in grado di sostenere periodi di criticità. Probabilmente molte piccole realtà verrano incorporate o potranno chiudere.
  7. Molte professioni cambieranno, ridimensionando il loro contatto con il pubblico allo stretto necessario utilizzando maggiormente tecnologie che dovranno migliorare e avere un accelerazione in termini di funzionalità e operatività per garantire la qualità del servizio.
  8. E molto altro… che oggi è ancora in realtà difficile da ipotizzare.

Che ne pensate ?

L’importante è non perdere la speranza, essere ottimisti e imparare ad adattarsi al cambiamento. Nuovamente.

Un abbraccio a tutti.

Fabio.